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Luigi Einaudi

“Gli Einaudi vengono dalla valle Maira, sopra Dronero; e lì si contano più Einaudi che sassi. Ab immemorabile, tutti montanari, boscaioli, pastori e contadini”.

Da una lettera autografa di Luigi Einaudi del 5 settembre del 1953.

Luigi Einaudi
 

Luigi Einaudi nacque il 24 marzo 1874 a Carrù (CN) da Lorenzo, che era concessionario del servizio di riscossione delle imposte, e da Placida Fracchia. Frequentò la scuola elementare a Carrù. Nel 1888, dopo la morte del padre, la famiglia si trasferì a Dogliani, il paese d'origine della madre, dove abitava nella vecchia casa di famiglia: «Queste che io osservavo nella casa avita erano le abitudini universali della borghesia piemontese per gran parte del secolo XIX; ed in un'epoca in cui gli spostamenti sociali non erano frequenti, si comprende come quelle abitudini formassero una classe dirigente che lasciò tracce profonde di onestà, di capacità, di parsimonia, di devozione al dovere nella vita politica ed amministrativa del Piemonte che fece l'Italia...».
 

Nel frattempo il giovane Einaudi si era meritato una borsa di studio per frequentare il ginnasio presso i padri delle Scuole Pie a Savona. Il 1888 Luigi frequentò il liceo classico a Torino. Nel 1891 si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza a Torino e a soli 25 anni si laureò a pieni voti nel luglio 1895 con una tesi su “La crisi agraria nell'Inghilterra”.

Einaudi si formò quindi nella Torino degli anni Novanta dell'Ottocento, nella quale vivissima era ancora l'eredità intellettuale degli economisti del Risorgimento come Francesco Ferrara, patriota siciliano, federalista, maestro di Camillo Benso di Cavour, i quali consideravano l'economia politica come "la scienza dell'amor patrio”.
 

Nel 1902 fu professore di scienza delle finanze all'università di Torino con l’incarico di Legislazione Industriale ed Economia Politica. Due anni dopo ottiene la cattedra di Scienze delle Finanze all'Università Bocconi di Milano.

Si dedicò presto al giornalismo, infatti, dal 1896 collaborò con il quotidiano torinese La Stampa, passando poi nel 1900 al già prestigioso Corriere della Sera di Milano, mentre dal 1908 diresse la rivista Riforma sociale.

Intanto, nel 1903, aveva sposato una sua allieva, Ida Pellegrini; la loro fu un'unione felice,
dalla quale nacquero tre figli (Giulio, fondò la famosa casa editrice che porta il suo nome,
la Giulio Einaudi Editore, mentre suo nipote Ludovico è un famoso musicista e compositore).
 

Luigi Einaudi venne nominato Senatore del Regno nel 1919, su proposta di Giovanni Giolitti.

Tenne, di fronte al fascismo un atteggiamento di opposizione e fu tra i sostenitori del federalismo europeo. 1927 lasciò il Corriere della Sera che era passato sotto il controllo del regime.
 

Nel 1935 le autorità fasciste fecero chiudere la rivista Riforma Sociale, e l'anno successivo Einaudi dette vita alla Rivista di storia economica (1936 - 1943).

Dopo il 25 luglio, l'insigne economista fu nominato rettore dell'università di Torino e torna a collaborare con il Corriere della Sera, ma con la proclamazione della Repubblica Sociale di Salò, precisamente il 22 settembre 1943, dovette abbandonare questo incarico e rifugiarsi in Svizzera dove scrive le Lezioni di politica sociale e si tiene in corrispondenza con molti intellettuali antifascisti, tra i quali Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, autori del «Manifesto di Ventotene».

L’occasione di dare concretezza alle riflessioni maturate nel corso degli anni svizzeri si
sarebbe presentata già alla fine del 1944: rientrò in Italia ed il 5 gennaio 1945 venne
nominato governatore della Banca d’Italia (1945-48).

La parsimonia (da ministro girava in Topolino) e la lotta agli sprechi di Luigi Einaudi, dopo anni di esercizio della carica di Governatore della Banca d'Italia, erano proverbiali. Ennio Flaiano, invitato a pranzo insieme alla redazione de Il Mondo di Mario Pannunzio, raccontava che, giunti alla frutta, il Presidente vide, con sorpresa, che nell'enorme vassoio c'erano solo frutti molto grandi e chiese ai commensali: “Io prenderei una pera, ma sono troppo grandi, c'è nessuno che vuole dividerla con me?”

A Dogliani, tra le terre messe assieme con esasperata attenzione ai conti, fece “un solo acquisto per orgoglio – raccontò.

Quando veniva servito il Barolo a tavola c’era sempre la domanda inevitabile: era di mia produzione? Mi seccava confessare che non lo era. Perciò comperai i quattro ettari”.

Una volta, nel 1953, la Dc tenta di porre il veto su un ministro – Salvatore Aldisio – scelto da lui e dal presidente del Consiglio Giuseppe Pella in fase di rimpasto: è Aldo Moro a portare il diktat al Quirinale.

Einaudi, a questo primo sopruso partitocratico, risponde per le rime con una durissima nota ai capigruppo parlamentari. E visto che Pella, abbandonato dai suoi ministri timorosi di scontrarsi col proprio partito, non se la sente di tener duro, il presidente lascia cadere il governo pur di non cedere di un millimetro dalle sue prerogative.

Convinto com’era che “non le lotte e le discussioni devono impaurire, ma la concordia ignava e le unanimità dei consensi”.

Nel 1946 fu eletto deputato all'Assemblea costituente per il Partito Liberale Italiano, e, per breve tempo, presidente dell'Istituto della Enciclopedia Italiana (1946), e dal 31 maggio 1947 fece parte del Governo quale vice Presidente e ministro del Bilancio, provvedendo alla stabilizzazione della lira mediante una severa politica di restrizione creditizia.

Nell’aprile 1948 divenne Senatore ed il 10 maggio venne eletto Presidente della Repubblica (1948-1955), carica nella quale si distinse per l'estrema correttezza costituzionale. Molte delle sue riflessioni, maturate nel corso del settennato, rimasero disattese sul piano della politica concreta.

Qualche anno più tardi lo stesso Einaudi le avrebbe fatte oggetto di una delle sue pubblicazioni più note, Le prediche inutili.

Allo scadere del mandato, il 25 aprile 1955, Einaudi rientrò a far parte del Senato occupandosi dei temi con i quali si era da sempre confrontato, arricchito della ormai vasta esperienza acquisita ai vertici delle istituzioni.

Dalle file del Partito liberale di Giovanni Malagodi, al quale si era riavvicinato, ma da uomo libero, continuò le sue battaglie “contro”: l’inflazione, i monopoli e le pianificazioni, il mito socialista, l’uniformità, il prevalere delle logiche di partito sul pensiero individuale; e le sue battaglie “a favore”: della libertà in tutte le sue declinazione, dell’uguaglianza dei punti di partenza, della prevalenza del liberalismo sul socialismo oltre le somiglianze e oltre le differenze, della scuola.
 

Nel mese di giugno del 1955, l'università inglese di Oxford gli conferì la Laurea ad Honoris Causa e ne tracciò questo sintetico ma eloquente profilo: "Luigi Einaudi ha fatto molto per la salvezza del suo Paese. Egli è oggi la più rispettata di tutte le figure d'Italia, e agli occhi degli stranieri simboleggia il risorgere di un Paese che, dopo vent'anni di dittatura ed i grandi disastri della guerra, ha ritrovato il suo posto onorevole fra le nazioni libere del mondo".

Il Presidente fu anche uno dei primi e più convinti sostenitori della necessità di creare l'Europa unita e, avversario di ogni forma di monopolio, si schierò in particolare contro quello statale nel settore della scuola.

Lo stesso Luigi Einaudi aveva devoluto gli introiti dei suoi scritti al finanziamento di borse di studio a sostegno di brillanti giovani studiosi.
 

Luigi Einaudi morì a Roma il 30 ottobre 1961 e fu sepolto nella tomba di famiglia a Dogliani, il paese nel quale amava passare le vacanze e discorrere con la gente dei problemi quotidiani.Bisogna ricordare anche Luigi Einaudi si è sempre dedicato personalmente alla conduzione della sua azienda agricola presso Dogliani, applicandovi i più moderni sistemi colturali.

Einaudi era claudicante e, per camminare, utilizzava il bastone. Quando il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti, gli venne a offrire la candidatura, a nome di De Gasperi primo Ministro, sorpreso e imbarazzato, pose il problema: “Ma come farò, zoppo come sono, a passare in rivista i picchetti d’onore?”. La replica del giovane e astuto sottosegretario alla presidenza del Consiglio è fulminante: “Non si preoccupi, potrà farlo in automobile”.
 

Così a 74 anni d’età, divenne il primo presidente “effettivo” della Repubblica italiana dopo il “provvisorio” Enrico De Nicola.

Al Quirinale, Einaudi salì davvero malvolentieri, non fece nulla per arrivarci. “Che peccato, però, lasciare la nostra casetta in Piemonte”, fu il suo primo commento. E poi, agli amici liberali venuti a congratularsi: “Che peccato non poter più scrivere di economia sui giornali”. “Ma diavolo, presidente – cercò di rincuorarlo uno dei presenti – lei potrà scrivere quanto le pare, usando uno pseudonimo”. “Questo mai – ribatté lui – non sarebbe leale”. Alla fine arrivano anche i presidenti della Camera
e del Senato, Gronchi e Bonomi. “Che Dio mi perdoni per l’orgoglio di questa mia accettazione”, disse arrossendo ancora.
Poi dopo i 21 colpi di cannone che annunciavano il suo ingresso, lanciò un brindisi, andando a prendere una bottiglia di Nebbiolo dei suoi filari. L’indomani il presidente giurò, lesse l’allocuzione d’insediamento davanti alle Camere riunite. Un discorso breve, asciutto, impeccabile.
 

De Gasperi lo convinse a trasferirsi al Quirinale (sebbene lui preferisse Palazzo Giustiniani, “perché lì c’è l’orto e mi piacerebbe coltivarlo”), così egli fu il primo Presidente della Repubblica a risiedere al Quirinale e l'appartamento presidenziale era ancora come l'avevano lasciato i sovrani Vittorio Emanuele III e la regina Elena, che dormivano in camere diverse. Il Presidente e la moglie Ida, allora, non volendo rinunciare alla loro intimità nemmeno per una notte, decisero di dormire in una stanza degli ospiti, accostando due letti.

Quello matrimoniale arriverà solo qualche giorno più tardi. Cominciò così il miglior settennato presidenziale che la Repubblica italiana abbia mai conosciuto. Il presidente, poggiato all’inseparabile bastone, è l’immagine dell’Italia pulita, laboriosa, competente, discreta. Rarissimamente farà parlare di sé, mai sarà sfiorato dal benché minimo sospetto di scorrettezza istituzionale o di interesse personale.

Riconoscimenti

Per i suoi altissimi meriti gli sono stati conferiti ampi riconoscimenti, tra i quali si ricordano: Socio e Vice-Presidente della Accademia dei Lincei; Socio della Accademia delle Scienze di Torino; Socio dell'Institut International de Statistique de L'Aja; Socio dell'Econometric Society di Chicago; Socio onorario dell'American Academy of Arts and Sciences di Boston; Socio dell'American Academy of Political and Social Science di Filadelfia; Socio onorario della American Economic Association; Socio onorario della Economic History Association di New York; Presidente onorario della International Economic Association; Socio corrispondente della Societé d'Economie Politique di Parigi; Vice Presidente della Economic History Society di Cambridge; Socio corrispondente del Coben Club di Londra; Socio corrispondente della Oesterreichische Akademie der Wissenschaften di Vienna. Gli sono state conferite le lauree "Honoris Causa" dalle Università di Parigi e di Algeri.

Dogliani era il «suo» paese.

Quello dove tornava ogni anno per le vacanze, per la vendemmia e per controllare che i conti dell’azienda agricola fossero «corretti e in ordine». E dove ha voluto che le sue spoglie riposassero per sempre. Vicine ai vigneti, al verde delle colline, al profumo della terra.  

Ogni anno il 2 novembre, il Presidente Luigi Einaudi è ricordato nel cimitero dello Schellino, con l’omaggio alla tomba: una semplice lastra di pietra grigia sul muro imbiancato, accanto a quelle dei familiari più stretti. La moglie Donna Ida, i figli professor Mario, l’editore Giulio, l’ingegner Roberto, gli altri congiunti.

La tradizione prevede che siano deposte con una sobria cerimonia, davanti alla tomba, tre corone d’alloro: una da parte della Prefettura, a nome dello Presidenza della Repubblica, una della Banca d’Italia (di cui è stato governatore) e una del Comune di Dogliani.

Einaudi era nato a Carrù nel 1874, ma si era trasferito, dopo alcuni anni, a Dogliani, paese della mamma, a causa della morte del padre. E con la cittadina della Langa ha mantenuto tutta la vita un rapporto privilegiato, che continua ancora oggi, con le generazioni successive della famiglia.

(Paola Scola Zaira Mureddu da: La Stampa -Cuneo 01-11-2016)

Il “vilipendio” di Guareschi

Un giorno il Candido di Giovanni Guareschi pubblica una feroce vignetta che lo ritrae piccolo piccolo, al fianco di un enorme corazziere che presenta le armi a un bottiglione di Barolo di Dogliani (dove il Presidente ha la sua tenuta agricola, produttrice di vini prelibati).

Un magistrato zelante incrimina Guareschi per vilipendio, ma Einaudi – appena lo viene a sapere – rimprovera il Guardasigilli, che ha concesso l’autorizzazione a procedere contro lo scrittore, poi fa sapere ai giornali che lui non ha nulla a che fare con quella decisione.

“Ma come – confida a un amico – in 85 anni di monarchia i re e le regine sono stati bersaglio continuo della satira, e non s’è mai fatto un processo come questo. La Repubblica democratica è forse meno tollerante della monarchia,al punto di processare chi ironizza sul fatto che il presidente sia stato e voglia restare produttore e venditore di vini?”.

Età giolittiana: Il liberista anti-trivellatore e Giolitti - il trentennio 1896- 1925.

Aveva in effetti già raggiunto la maturità quando si iniziava l’età giolittiana, che lo vide, trentenne e quarantenne, in cattedra, a partire dal 1902. Fu questa, anzi, l’età della fioritura di Einaudi come studioso e come pubblicista, età la cui conclusione può ben considerarsi la nomina a senatore del Regno nel 1919, immediatamente dopo la prima guerra mondiale. Einaudi, contrariamente a quanto potrebbe far pensare, non fu estimatore dello statista piemontese. Può infatti inscritto fra i grandi polemisti coevi dell’antigiolittismo, come Salvemini.

La sua critica del mondo giolittiano del compromesso politico, da lui considerato erede della non pregevole Italia del trasformismo, era, in definitiva, rifiuto dell’arte mediatoria della politica che, da parte di chi ne possiede in grande le qualità, può aprire strade nuove o risolvere situazioni altrimenti insostenibili, proprio nel senso che oggi si attribuisce alla parola “sostenibilità”. Einaudi, rifiutava la mediazione politica della conflittualità per evitare le tentazioni di rovesciarne i costi sulla collettività, attraverso la mediazione, spesso onerosa, dello stato.

Il liberismo “predicatorio” di Luigi Einaudi aveva un’accentuazione particolarissima. Era infatti un liberismo, fortemente polemico, ma di tipo non propositivo di modelli dogmatici – il suo “piccolo mondo antico” restava sempre sullo sfondo – bensì, fondamentalmente, oppositivo e difensivo, un liberismo polemico in lui – dell’“economista pratico” più che del “teorico”.

Per Einaudi il liberismo era la difesa del patrimonio collettivo dalle aggressioni di cavallette antisociali di ogni tipo. Era un atteggiamento empiricamente pragmatico, anche se aveva ovviamente come referente una teoria classica. Si trattava di un atteggiamento che dovrebbe forse considerarsi una normale componente etica del civismo di fronte a quelle situazioni di “aggressione” alla cosa pubblica che si presentano nella storia di tutti i giorni e di ogni paese. Einaudi li chiamava i “trivellatori” della nazione.
 

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