Gustavo Ponza
Sul piedistallo della statua eretta a Dronero, Piazza Martiri della Libertà, davanti al Teatro. Cita:
A ricordo perenne
di Gutavo Ponza Conte di S. Marino
Questo monumento auspice
Dronero Italia eresse
X settembre MDCCCLXXXII
(10 settembre 1882)
Sul retro:
Uomo di tempra antica
di domestiche e cittadine virtù
Singolare esempio
Amministratore a niuno secondo
Riordinò le Opere Pie di San Paolo
Instituì il Credito Fondiario
Deputato Senatore delle libertà statutali
Fu della Corona non cortigiano in Corte
Schietto e imparziale consigliere
L’Unità Italica
Plenipotenziario a Napoli nel 1870
Difese a viso aperto
La storia ne inciderà il nome
Ne’ suoi fasti immortali
Nato in Cuneo a dì VI gennaio MDCCCX
Morì in Dronero il VI settembre MDCCCLXXVI
Senato del Regno, Atti parlamentari. Discussioni, 27 dicembre 1876: Sebastiano Tecchio, Presidente
Onorandissimi miei Signori.
Vuole la pietosa consuetudine del Senato che il Presidente si faccia in assemblea pubblica a commemorare il nome e i meriti di quei Colleghi che, tolti recentemente alla vita di quaggiù, son volati a dormire nella pace che non ha fine.
[....] Gustavo Ponza di San Martino, nato a Cuneo il 6 gennaio 1810. Mente acuta; occhio di lince. Delle cose che spettano agli ordini amministrativi studiosissimo, peritissimo. Ebbe parte precipua nella Legge dell’Amministrazione provinciale e comunale che il Governo del Re, temporaneamente investito di pieni poteri, promulgava nel Regno di Sardegna il 7 ottobre 1848; la quale, mano mano modificata, diventò la Legge delle provincie e dei comuni tutti del Regno d’Italia.
Fu il conte di San Martino Ministro degli Affari Interni dal 4 novembre 1852 al marzo 1854 nel Ministero presieduto dal conte di Cavour. Saldo alle tavole dello Statuto, e profondamente persuaso che il migliore presidio della libertà consiste nell’ordine, valse a difendere e l’una e l’altro da tutti i pericoli, da tutti gli eccessi.
Volgeano tempi aspri, difficili. Le franchigie date al suo popolo da Re Carlo Alberto, e riformate da Vittorio Emanuele in onta alle insidie di chi prepoteva nella penisola, da una parte impaurivano i regoli, dall’altra ingelosivano il manipolo repubblicano. Addì 6 febbraio 1853 irrompe nella capitale lombarda l’audace antiguardia di Giuseppe Mazzini. Nemici interni ed esterni ne gridano in colpa, come di complice, il Governo del Re. Non cerca discolpe il Governo, non si umilia in iscuse. Vede il Proclama de’ 6 febbraio, delle armi regie più dispettoso che delle straniere; e lo manda subito a pubblicar tutto solo, senza chiose, senza postille, nella Gazzetta ufficiale del Regno. Nobile e fiera repulsa!
Non dirò delle lotte che il Conte di San Martino, avvegnaché devoto alla religione del maggior numero degli italiani, sostenne gagliardamente contro la setta che la crede o la finge nemica alle aspirazioni, alle necessità del progresso civile. Non dirò delle orme luminose che, uscito dal ministero, ed eletto Senatore e consigliere di Stato, ebbe a stampare nei dibattiti, e nei responsi, dinanti all’una e all’altra Assemblea. Né dirò della passione singolarissima ond’egli soppravvegliava al governo delle Opere Pie di Torino, che tante sono e tanto preziose. Codesti ed altri ricordi io trapasso; ché ormai mi tarda di sgombrare le male voci da un famoso episodio delle sue gesta politiche.
Tosto dopo la Convenzione del Settembre 1864, onde fu dislocata la sede del Governo da Torino a Firenze, il conte di San Martino ideava e instituiva quell’associazione elettorale permanente, che fu sospettata del più reo dei propositi; il proposito di rompere il fascio della nostra unità. Signori: sento il diritto, sento il debito di testimoniare sull’onor mio, che fu chimera il sospetto, e fu menzogna l’accusa. Il conte di San Martino e i compagni suoi (anch’io, pregato da lui, all’Associazione intervenni) non erano agitati che da un timore, non ardevano che di un desiderio.
Temettero non forse la Convenzione, invece che meramente la sosta, inducesse la disdetta al testamento di Camillo Cavour: «senza Roma capitale d’Italia, l’Italia non si può costituire» (a). Temettero non forse i governanti, insediati sulle rive incantatrici dell’Arno, più non volessero darsi briga di incarnare il disegno del sommo statista. E impazienti di oscillanze e di indugi, questo auguravano, a questo si affaccendavano, che i Comizj elettorali designassero a rappresentanti della Nazione i più infiammati, i più pertinaci nel voto della redenzione di Roma.
Altri giudicherà se le siffatte impazienze tornassero caute e tempestive, intantoché la italica indipendenza era piuttosto un mito che una realtà: ma nessuno ardisca supporre che incitate e sospinte non fossero da patrio amore.
Alla integrità, alla saldezza dei concetti del conte di San Martino porgeva tributo di solenne fiducia il provvidissimo Principe; il quale nel 7 Settembre 1870 a lui commetteva l’incarico di annunciare al Pontefice che finalmente era giunta l’ora di sceverare la spada dal pastorale, e di rendere a Cesare il regno che la divina sapienza avea chiamato regno di Cesare.
Pochi giorni dappoi la bandiera nazionale sfolgorava dalle cime del Campidoglio. L’Italia avea racquistato la sua capitale. - Sopravvisse il conte di San Martino ancora sei anni. Nella coscienza di avere altamente amato, altamente operato, diede il mortale respiro, or fanno pressocché quattro mesi, il 6 di settembre.
[...] Signori: tempo è che io suggelli codesti cenni funerei.
Concedetemi di sperare che non mi tocchi più di venirvi dicendo, che qualcuno de’ nostri Colleghi s’è da noi dipartito.
(Segni generali d’approvazione).
(a) Discorso alla Camera dei Deputati 25 marzo 1861.